Il vento del Gobi, dopo la pioggia che ci è entrata nelle ossa, é indescrivibile. Ha una voce diversa, che incute una sorta di timore reverenziale. Le pareti della gher vibrano tanto da farci cedere al pensiero di poter volare via. Eppure, non c’ è miglior modo per abbandonarsi al sonno.
Distaccati dal tempo (imperativo e participio)
Se ad uno sguardo superficiale alcune delle manifestazioni naturali mongoliche ricordano qualcosa di già visto in altri luoghi – alcuni scorci della Cappadocia e dell’Islanda, ad esempio (sì, non c’entrano nulla l’una con l’altra) – c’è una diversità sostanziale. In Mongolia, tutto più ampio, non misurabile.
Mentre il nostro UAZ attraversa la pianura della steppa, l’orizzonte appare così sterminato da far dubitare che esista una destinazione effettiva oltre la sua linea. Forse, andrà avanti così all’infinito. Forse, no. Bisogna avere pazienza.
E’ poco accettata – culturalmente – la domanda “quanto manca?”, ci spiega Batbold. In Mongolia, non puoi pretendere di calcolare il tempo.
Silenzio
Compaiono i profili, lontanissimi e scuri, di una catena montuosa. Queste montagne – distribuite sui lati della pianura, al cui centro si trova la strada ormai totalmente sterrata (i sobbalzi, in alcuni punti, sono estenuanti) – sono braccia che cingono la terra. Si chiamano Baruun Saikhany, Dund Saikhany e Zuun Saikhany, dette “le tre bellezze del Gobi”. Il cielo, immenso, è una coperta azzurra adagiata sulla terra. Non stupisce che gli antichi sciamani mongoli lo venerassero.
Allontanarsi dai compagni di viaggio, sedersi a terra e fissare l’unica cosa che svetta dalla piana desertica bianca: le conformazioni rocciose di Bayanzag – fiamme rosse pietrificate – luogo del primo ritrovamento di uova di dinosauro. E’ tutto immobile e silenzioso – fa quasi paura – tranne le nuvole. Pennellate di un pittore distratto, forme corrette dal vento.
Non c’è il mare, c’è Tsagan Nur e la sua geometria. I piccoli cerchi concentrici della pioggia sulla superficie del lago – che si perde in una direzione imprecisata, cinto dai triangoli verdi delle montagne – sono ipnotici. La luce dei raggi di sole che trafiggono le nuvole scure è abbagliante. Non capisco se è il cielo ad illuminare l’acqua o l’acqua ad illuminare la terra. Poco più in là, nella luce calante del tramonto, i pinnacoli neri di lava – disseminati lungo la costa – si riflettono nell’acqua come coni ribaltati all’ingiù. Il cielo ha ceduto alla terra un pezzo della sua maestosità.
Indizi
Il tempo non si calcola, ma ne esiste traccia: gli animali e gli uomini. Qualcosa, di tanto in tanto, attraversa la “strada”. Che siano le sagome nere degli yak (crema di latte di yak spalmata sul pane a colazione, buona come la panna e lo yogurt) - con l’andatura dinoccolata che richiama un’epoca ancestrale - oppure le carovane di cammelli, i cui profili spezzano l’orizzonte dorato delle dune di sabbia.
I nomadi o semi-nomadi sfrecciano sulle motociclette e sui cavalli, diretti alle gher sparse nel nulla, alcune delle quali dotate di antenna parabolica e pannello solare. L’allevatore di cammelli scrolla distrattamente la home page di Facebook, soffermandosi su un video di musica orientale.
Lo sguardo, prima di aprirsi al sorriso ospitale, è rigido; sia quello dei cittadini, sia quello degli abitanti del nulla. Mi fa venire in mente il loro inverno. Immagino facilmente Chinggis Khan costruire quell’impero che – inesorabilmente – investì l’Asia fino a raggiungere le regioni dell’Europa dell’Est, sfidando il potere del Papa.
Persistenza
Fatico ad addormentarmi nella gher, le coperte di lana sono impregnate dell’odore acre delle pecore allevate dai nomadi. Sento - non troppo lontano - il suono ritmato di un tamburo, accompagnato dalle voci allegre di un coro in una lingua sconosciuta. Era una preghiera notturna, ci spiega Batbold la mattina successiva.
La spiritualità buddhista dei mongoli è sopravvissuta anche all’invasione sovietica che, negli anni Trenta del Novecento, si è tradotta nell’eccidio di decine di migliaia di monaci e nella distruzione di quasi tutti i templi eretti nel Paese. Qualcosa è rimasto in piedi, restaurato per quanto possibile; altrimenti, ruderi. Nella prima categoria rientra il seicentesco monastero di Erdene Zuu, la cui skylinedi stupa bianchissime e dorate, costituisce l’attrazione principale di Kharkhorin, capitale dell’impero. Nella seconda categoria rientra Ongiin, arroccato tra le montagne. Del monastero restano piccole pagode ed un museo nel quale sono conservati i reperti salvati dall’invasione. Per il resto: vento e preghiere che si insinuano tra le rovine in pietra, il gorgoglio continuo del fiume che scorre poco più a valle.
Trait d'union
Orgogliosi del loro passato imperiale, orgogliosi della loro giovanissima democrazia. I trentenni/quarantenni di Ulaanbaatar difendono a spada tratta l’indipendenza ottenuta all’inizio del 1990. Sono consapevoli, da un lato, di quanto sia importante mantenere relazioni diplomatiche equidistanti con l’ex dominatore russo e con l’antico rivale cinese (ammiccando, nello stesso tempo, all’Occidente); dall’altro, le “nuove generazioni” sono ben consapevoli dei vantaggi strategici che la Mongolia può trarre, soprattutto nel periodo attuale, in ragione delle consistenti attività estrattive.
Su Ulaanbaatar, che dire. Ad un primo sguardo: ammasso disordinato di condomini sovietici e grattacieli in stile emiratino/statunitense (e sinfonia di clacson), a cui si aggiungono – sullo sfondo – ciminiere fumanti, che stonano con la natura che circonda la capitale. Nonostante l’involucro, si intuisce che la città è vivace, giovane, in costante crescita sotto vari profili.
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Ne avrei tante altre di cose da raccontare – sulla capitale e su quel gigantesco, meraviglioso, nulla – ma non trovo le parole. Bayarlalaa, bayartai, Mongolia.
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